Che cos’è la perfezione: un fisico perfetto? Un viso senza difetti? Uno stato d’animo appagato? La conquista di un risultato? Tutte queste definizioni ci rivelano qualcosa di compiuto, qualcosa che è arrivato al suo apice e non ha altri limiti da superare. La perfezione è quindi monotona, è orizzontale, noiosa. Il nostro tempo è caratterizzato da un’ossessione alla perfezione. Le riviste patinate spesso ci propongono modelli difficilmente raggiungibili, non è un caso se per costruire l’immagine, la scelta del grafico sia caduta su Angelina Jolie. Ma senza le imperfezioni non avremmo delle eccezioni: Anna Magnani, Barbra Streisand, Chantelle, Bebe Vio? Un fascino particolare, con imperfezioni più o meno visibili, ma sono le stesse incompiutezze che hanno contribuito al loro essere uniche.
Per il tema della settimana vogliamo ispirarci a due narrazioni. Parlano di frammenti, di senso di inadeguatezza e poi di gioielli, di vita che sboccia. Una tazza da tè ed un ànfora. Il primo narra di Ashikaga Yoshimasa, uno shogan vissuto nel XV secolo, che ruppe la sua tazza da tè preferita. A ripararla alcuni artigiani giapponesi i quali, per il valore affettivo che lo shogun provava per l’oggetto, tentarono di trasformarla in qualcosa di straordinario colando nelle crepe resina laccata e polvere d’oro, l’antica tecnica del kintsugi. Quella che era solo una bella tazza da tè era rinata dai frammenti, diventando un gioiello unico. (C. Santini “L’arte segreta di riparare la vita”).
Il secondo ci racconta di un contadino che soleva condurre acqua dalla sorgente al villaggio trasportando due anfore, una perfetta ed una colma di fessure. Quella intonsa derideva l’altra, vantandosi di arrivare a destinazione con tutto il carico. L’ànfora crepata si sentiva inutile e confessò al padrone di sentirsi solo un peso. Il contadino l’invitò a osservare il ciglio della strada. Era pieno di fiori…
Lui aveva comprato dei semi ed era stata lei a irrigarli, grazie alle sue incrinature la vita al loro passaggio era nata. (B. Ferrero “L’anfora imperfetta”)Entrambi i brani ci parlano di carenze, di crepe, di senso di inadeguatezza. Ma ci parlano anche di unicità. L’imperfezione è quindi assenza. Sono le varianti a generare le nostre singolarità, le insufficienze ci tengono in movimento, sono propulsore per reinventarci, sono un incontro a metà strada tra noi e le nostre probabilità di crescere, di essere irripetibili.
Sono il ponte tra finito e infinito, per attraversarlo ed arrivare a stupirci di quel che siamo e di come trasformiamo il nostro mondo, piccolo o grande che sia. Quello che per noi è un “complesso” può allora divenire singolarità? Qualcosa da valorizzare più che nascondere, per renderci preziosamente unici e riconoscibili? Tutti possiamo essere perfettamente imperfetti, perché se “c’è una crepa in ogni cosa, è da lì che entra la luce.” (L. Cohen).
E tu? Lasci che le imperfezioni raccontino di te o le proteggi sotto una patina di trucco e tessuto?